sexta-feira, 22 de janeiro de 2010

Dress-code - Bodyscape - Location: un'etnografia applicata alla comunicazione vizuale - Massimo Canevacci



Questo paper sviluppa una etnografia della comunicazione visuale focalizzata sulla relazione tra bodyscape e location, a sua volta interconnessa con i concetti di dress-code, attrattori, interstizi. Corpi e spazi panoramatici sono costitutivi della nuova metropoli comunicazionale.

Lo svolgimento del mio discorso è strettamente legato alle composizioni per immagini e scritture espresse nel power point: un sentire pluri-sensoriale e multi-sequenziale.

Il centro delle nuove metropoli non è più caratterizzato dalla produzioni di merci, bensì dalla espansione decentrata di comunicazione visuale, consumo performativo, cultura sincretica, soggetto multiplo, tecnologie digitali.

L’etnografia è una metodologia di ricerca transdisciplinare applicata alla comunicazione visuale espressa attraverso i corpi ibridi della nuova metropoli comunicazionale.

Capitolo 1: Corpi e metropoli



-a) bodyscape

Bodyscape è il corpo panoramatico che fluttua tra gli interstizi della metropoli comunicazionale. Il suffisso -scape persegue accelerazioni di codici prima invisibili che un corpo inserisce per assemblaggi successivi lungo la propria configurazione per costruire una determinata fisiognomica. Quindi, il corpo di un soggetto che si avviluppa in dress-code – a differenza del cliente – è sospinto per forza immanente a elaborare nuovi sistemi percettivi, nuove sensoralia, esplorando le zone-morte tra quello che è noto o comunque già visto e quello che sta emergendo. Il soggetto-dress-code strappa le zone-morte in quanto feticci e li trasfigura in zone liminoidi dalla potente forza attrattiva cosmetica, cioè erotica. Eroptica. Quelli che chiamo interstizi sono gli attraversamenti metropolitani che, nel suo compiersi, mutano i sistemi percettivi del soggetto che accoglie e rielabora i codici incontrati o scontrati per somatizzarli. Tali interstizi – che sono flebili, cavi, a tempo - hanno la specialità di collocarsi sempre “tra”, cioè entro quelle zone lasciate vuote o abbandonate dalle costituzioni mainstream dei luoghi urbani. Filo sottile e lascivo che si contorce e flette per essere sempre un fuorispazio dissonante: questo è l’interstizio.



-b) Location

Location è un luogo-spazio-zona-interstizio che caratterizza il trans-urbanismo contemporaneo, i cui codici - più che nel design esterno, che in genere è anonimo o generico - sono significativi al suo interno: è qui che il design di ogni oggetto, la configurazione di ogni stanza, sala, corridoio, toilette, nicchia, gioco di luci-ombre, sound-design ecc. accentua al massimo la percezione di un dress-code incorporato. Il gioco dei dress-code “somatizzati” ed esposti dalla location produce attrattori: ovvero tensioni comunicazionali e sensoriali che muovono soggetti che aspirano o hanno in qualche modo già anticipato una propria affine traccia di corpo panoramizzato. Bodyscape e location, quindi, come traccia: una variazione-successione di musiche e di impronte disseminate lungo sentieri non ancora esplorati.

Sia bodyscape che location esprimono attrattori sessuati in un gioco performativo con continue citazioni, scambi, inversioni, perversioni, multiversioni, subversioni. Entrambi sono come due entità dalle identità fluidissime e mutoidi che non hanno genere (maschile-femminile), luogo (pubblico-privato), ontologie (organico-inorganico), morale (bene-male), dicotomie (natura­cultura), gerarchie (alto-basso): bensì scorrono sui territori dell’oltre. La forza di tali attrattori non è oppositiva (per es. al potere) bensì si dirige sull’oltre.

Se il trucco, la maschera, la cosmetica rappresentano una sfida alla durezza supposta come “naturale” del corpo mono-identitario (permessi solo per feste particolari), ora essi si mescolano nella quotidianità incessante con il design e persino con il packaging.

Per diventare panoramatico, un corpo si traveste di design e si fa packaging, così come - per diventare localizzato – un interstizio si incarna di eccessi zoomorfi.

Questi attrattori non tendono a fare del due l’uno (bodyscape = location), bensì liberano le differenze irriducibili a ogni sintesi lungo un molteplice frammentizzato. Su tale differenza scivolante si gioca il dress-code.



- c) dress-code

Nel linguaggio della moda, si distingue clothing da dress:

-clothing si riferisce ai vestiti e accessori, gioielli, make-up, tatuaggi, piercing singolarmente presi;

-dress coinvolge e muove quelle pratiche che ne caratterizzano scelta, incorporazione, combinazione, assemblaggio, cut-up, morphing e, infine, la selezione verso il contesto;

-code , inoltre, è un codice che indica le scelte della trasformazione, le logiche sotto e sovrastanti l’attività semiotica che il corpo acquisisce sulla base di scelte spontanee/costruite da parte del soggetto.

Per cui, nel mettere insieme dress-code si sottolinea una pragmatica del corpo che si modifica, si costruisce, si risignifica attraverso continue e oscillanti scelte da parte di un soggetto mutante e molteplice, nella sua relazione costitutiva e mutevole con il contesto all’interno del quale esporre tale pragmatica comunicazionale.

Dress-code apre verso le polifonie del soggetto che sfida ogni identità fissa, compatta, unitaria, gioca con ironia/parodia con gli stili (etnico, dark, punk, fetish, folk, cosmopolita, ecc.), ibridizza il corpo come opus che assembla pelle, oggettistica, cosmetica, sensoralia; dialoga, evoca cita, indossa, crea lo spazio entro il quale si muove. Nel dress code ogni tratto non ha un significato codificato dall’uso (moda), tanto meno inconscio. I simboli sono fdecentrati e “giocati”, gli archetipi derisi e dissolti.

Dress-code stabilisce relazioni di sintonia, dissonanza, agglutinazione con “il locale” verso cui si dirige e da cui è attratto, per superare quella linea fatale e fatata dell’ingresso: vera zona liminoide che, una volta varcata, innesta il momentaneo scorrere del suo desiderio.

Dress code come location: una selezione desiderante di uno spazio-corporeo per un corpo­spaziato. La location è una cosmesi dello spazio-corpo fondata su attrattori elaborati e inscenati di volta in volta. La costruzione di un panorama corporeo che è significativo per determinate scene e relazioni con l’altro.

Dress code è in between la location e bodyscape.

Dress code ti incarna come soggetto in quel momento, in quel posto, con quelle persone: dress code come cosmogonia. dress code è la chiave d’accesso: è la password che unisce o favorisce lo scambio (il crossing) ibrido tra location e bodyscape.



-d) attrattori

Attrattori sono codici visuali ad alto valore fetish che assorbono attenzione nei loro movimenti inter e intra-spaziali. Accentrare sguardi è aspirazione immanente di ogni attrattore: penetrare e farsi penetrare dall’occhio e dalla sua molle vischiosità erotica.

L’attrattore è eroptico.

Gli attrattori comunicano – seducono - l’emergente. Gli attrattori sono policentrici e polimorfi, sincretici e fetish. Gli attrattori inscenano enigmi silenziati: sono rebus somatizzati da esporre in un particolare ambiente per uno specifico pubblico. L’attrattore ha (è) una fisicità semiotica: esso è determinante per il morphing cui si sotto- e sovrappone il soggetto. I tessuti intertextuali somatizzati come attrattori sono interzone (corporali e spaziali: corpi spaziati) costitutive del dress-code.

L’attrattore si coagula su uno o più punti distesi nei panorami corporali e spaziali, e – ancora di più – nella relazione eroptica tra loro e con lo sguardo mobile del soggetto metropolitano­comunicazionale: il cui flusso-di-sguardi tenderà a ruotare la sua traiettoria visuale intorno a tale punto. L’attrattore è quindi un spazio-di-fase (o spazio-di-transito) che esercita un appeal eroptico verso corpi pieni-di-occhi attirandoli a sé.

Il design etnografico si distende nella ricerca empirica e inventiva di sempre nuovi attrattori: ovvero indicatori comunicazionali ad alto contenuto eroptico.

È quindi molto riduttivo vedere nel dress code solo la password corretta per entrare nel posto giusto, per poter sentire o - direi proprio - subire l’eccesso esaltante della selezione che attraversa il proprio corpo assemblato per varcare (ed essere varcato da) la soglia. Se un locale “ordina” un tipo di dress code come chiave d’accesso ed elenca lo stile giusto cui sottoporsi, sta inesorabilmente regredendo su un’etica da caserma o collegio seminarista. Banale riproduzione peggiorativa di imposizioni coatte di identità uniformate.



- e) Interstizio

Interstizio è parte dell’esperienza metropolitana, ne è elemento significativo per quei soggetti che – anziché uniformarsi ai luoghi – creano spazi attraverso il loro trans-correre con un corpo panoramatico che ha somatizzato codici ancora incerti e invisibili ma che possono produrre senso. Non certo un senso collettivo, poiché questo è finito (si spera per sempre) con la fine della città industriale, della piena modernità, della politica generalista: bensì un senso, un sentire che continua a esprimere l’irriducibile antagonismo del frammento verso ogni resurrezione o nostalgia collettiva a carattere totalizzante.

L’interstizio muove la città verso la metropoli comunicazionale.

È tra queste zone di margine – che non per questo stanno nella cosiddetta periferia, anzi, la nuova metropoli ripensa in modo radicale il tradizionale nesso centro-periferia – che sorgono, mutano, scompaiono, rinascono le location delle culture: e il soggetto che ha somatizzato il dress-code attira ed è attirato da tali mutanti location.



f) Spiraglio

Spiraglio è la frattura: l’orifizio frastagliato, la cavità oscena, la convessità arrogante, sezione trasparente, angolazione opaca, slacciamento di legami. Spiragli offrono a sguardi slacciati ciò che ancora era invisibile in quanto sospirato per eccesso. Tra corpi e interstizi si aprono spiragli desideranti di corpographie.



g) Pragmatica

La pragmatica consiste nel gioco che la cosmesi esercita in entrambi i poli dei corpispaziati per liberare intrecci possibili tra bodyscape e location. Il soggetto o direi meglio il multi-viduo che indossa … si fa indossare … da dress-code si muove: il suo movimento è una pragmatica semiotica il cui senso è dato da questo attraversamento e non dalla stanzialità cosmetica. Anziché sedentaria, la cosmetica multi-viduale è diasporica, cioè disseminativa di insinuazioni.

Un’etnografia del bodyscape sottolinea pragmatiche del corpo in corso, in corso-di-corpo, che si risignifica attraverso continue, oscillanti scelte di un soggetto in mutante pragmatica comunicazionale.



►► Intermezzo di tracce

►Location e bodyscape: spiragli interstiziali per CORPI PIENI-DI-OCCHI : dove corpi-oggetti e body-corpse lasciano tracce

►Bodyscape: corpo panoramatico che fluttua tra gli interstizi della metropoli comunicazionale. Attira ed è attirato da mutanti location. Si apre co spiragli slacciati.

►Location: è un luogo, uno spazio o una zona interstiziale che inscrive simmetrici movimenti di corpi panoramatici

►Dress-code: è una pragmatica del corpo che si modifica, costruisce spazi, risignifica feticci attraverso scelte cosmetiche di un soggetto mutante



-dress code come location: location del corpo.

- dress code è la chiave d’accesso: è la password che favorisce il crossing tra location e bodyscape.

►Attrattori: codici visuali ad alto valore fetish che seducono l’emergente. Gli attrattori sono policentrici e polimorfi. Gli attrattori inscenano enigmi silenziati: sono rebus somatizzati.

►Tra dress code, location, bodyscape vi è una polifonia di narrazioni, un sincretismo di citazioni, un feticismo body-corpse



Tra dress code, location e bodyscape vi è una polifonia di narrazioni, un sincretismo di citazioni, un feticismo translucente di body-corpse.

Il dress code come cosmogonia temporanea e fluida. Cosmogonia cosmetica che indossa – incorpora – codici. Codici danzanti. Incroci, innesti, citazioni, dialoghi, montaggi. Corpo come clip. Codici che vibrano. Dress code suona più che parla. Dress code come tecnologia dell’incorporamento parassitico: come codice di trans-gresso: tra abito-corpo, oggettistica e location. Bar-code: dress-code: bodyscape. L’oggettistica è corpse. Cadavere che torna body per una zona. Trasfigurazione fetish di body-corpse.

I locali fetish hanno anticipato il dress code come bodyscape : relazione subversa tra architetture di interni e somatizzazioni in esterni. Si afferma una pragmatica dell’architettura che è vissuta e agita solo in quanto mossa e riempita da un determinato stile-di-corpi. Il nuovo fetish visuale è una location.

Body-fetish: fetish-zone. Capitolo 2: metropoli comunicazionale

“Il passaggio interstiziale fra identificazioni fisse apre le possibilità di un’ibridità culturale che accetta la differenza senza una gerarchia accolta o imposta”

Homi K. Bhabha (2001:15)

- a) metropoli comunicazionale

La differenza tra la metropoli ottocentesca (quella percorsa da Benjamin) e quelle contemporanee è che queste – anziché da flaneur - sono attraversate e incrociate da soggetti diasporici che non è possibile fermare con la forza né con le leggi. Non solo. Tali soggettività diasporiche innestano sincretismi comunicazionali inquieti e inquietanti. Una metropoli che non sappia farsi vivere e modificare dalle diaspore perturbanti si irrigidisce come città tradizionale.

Il soggetto diasporico non è più connesso con la sua matrice “etnica” (ebrea, africana, armena ecc.): è un soggetto disconnesso, che sceglie di attraversare i flussi metropolitani e comunicazionali mettendo in discussione ogni solida configurazione di ciò che è stato razzializzato, etnicizzato, sessualizzato da parte della logica classificatoria dell’Occidente.

Questo significa che, per intendere il flusso contemporaneo, si deve osservare come vero soggetto in movimento la nuova forma della metropoli comunicazionale (Canevacci, 2003). Una città-metropoli non più industrialista, modernista, progettata all’interno di una opposizione centro­periferia, basata sul radicamento identitario del lavoro diviso in classi sociali omogenee, o della famiglia divisa in ruoli maschili-femminili stabili, cui la politica, la dialettica, il partito davano forma, sostanza e conflitti. Il centro produttivo urbano della fabbrica dava non solo il tasso del valore economico, ma anche ordine tramite la visibilità materiale del sociale, i legami forti e compatti come le identità.

Il mix-ibrido di cultura-consumo-comunicazione-tecnologie sta spazzando via la centralità industrialista della vecchia città e persino della metropoli benjaminiana che pur aveva “visto” per prima l’importanza della nascente comunicazione. Per questo la metropoli comunicazionale – nello stesso tempo tutta materiale e tutta immateriale – si estende lungo vaste areee di conurbamento ben precisate dal termine sprawl, la cui esposizione transnazionale e trans-territoriale ne determina l’importanza non solo produttiva quanto anche percettiva, emotiva, valoriale. Insomma lo sprawl comunicazionale ha sensi plurimi e multi-sequenziali su cui si innesta nuovi tecno-sincretismi attraverso mutanti panorami urbani e creatività antropofagiche che rimasticano stili, incrociano vari codici, rigenerano ogni sguardo.

Elementi parassiti e diasporici possono respirare negli interstizi delle metropoli.

Gli architetti più innovativi si innestano dentro le molteplici dimensioni dell’avatar e diffondono nuove dimensioni poli-logiche e multi-prospettiche: avatecture. Secondo il manifesto dell’architetto Michael Heim, avatecture è un morphing tra avatar e architettura, che esprime alcune tendenze della nuova metropoli comunicazionale:

“Architecture is becoming avatecture: Physical buildings morph into virtual structures that generate online avatar communities. The avatars discuss prototype structures in virtual reality, and the physical structures become multimedia visualizations - a magic theater where buildings acquire networked significance. Avatecture injects transformation into physical structures, merging clicks with bricks, enlivening re-configurable buildings with flexibility, change, and soft significance. The avatect is a shaman who creates interactive visions, who initiates a shared version of future habitation. The shaman dances the community into a dwelling that responds to shared visions and that can later morph to accommodate the passages of time. The physical edifice becomes a theater of endless possibilities” (. www.mheim.com)

Kas Oosterhuis (2003:14): “The ParaSITE body is an inflatable sculpture that constructs language in real time. It absorbs sounds from the local environment and from the global Internet; it instantly uses the sounds as nutritious samples for hungry computer programs producing a complex soundscape. The sound is connected to the light. ParaSITE performs during the night what it learned that day. ParaSITE is an early attempt to accept the fact that architectural bodies may need to develop an e-motive intelligence of their own”.

Betsky–Adigard (2000): “Architecture must articulate the relationship between body and landscape. It must ground us. Morphosis: translucency is a quality of the floating world. Floating world comes alive at night, in secret courtyards and in rooms that open up beyond shoji screens. It is concentrated in certain quarters but permeates the city with a sensual reality”

E-motive architecture di Oosterhuis – architecture must burn di Coop Himmelblau – Avatecture di M.Heim: costituiscono una trama che connette un fluttuare di forme, cose, oggetti, situazioni mobili che intessono panorami mediterranei le cui frontiere sono porose e infinite come le possibilità creative di ogni soggetto diasporico che desideri trans-locare verso codici espressivi ancora da innovare. Se architettura, design, installazioni si collocano sulla mobilità sincretica mediterranea, l’antropologia e in particolare le sue metodologie di ricerche empiriche – l’etnografia

– spingono all’auto-creazione interminabile lungo itinerari (routes) inesplorati e sconfinanti.

Incroci e attraversamenti “sentono” le svolte dislocanti del sincretismo tecnologico (syn­tech). Il syn-tech è dislocante e diasporico, per questo scorre liquido, interminabile, inafferrabile. Le diaspore syn-tech gemmano transculture.

Comunicazione visuale Interstizi fluttuanti Incroci dislocanti Soggetti diasporici Culture sincretiche Habitat traslocanti Logiche multisensoriali ParaSITE soundscape Metropoli comunicazionale

- b) Etnografia e comunicazione visuale

Gli intrecci tra antropologia e comunicazione visuale si possono collocare sulle prospettive offerte dall’etnografia. L’etnografia, infatti, contiene diverse metodologie di ricerca empirica applicate su diversi fieldwork: dall’affermazione degli studi culturali in poi, con tali metodi si intende configurare la disposizione del soggetto che fa ricerca sui territori (materiali/immateriali) della sperimentazione così come emergono anche confusamente e in modi non lineari tra gli interstizi della comunicazione metropolitana, etnica, generazionale, di genere, soggettiva. Sperimentare i flussi della metropoli comunicazionale – sempre più sincretici, frammentari e pluri­sensoriali – implica un nuovo posizionamento del soggetto. Il soggetto posizionato è un soggetto che si disloca in una riflessività etnografica: ciò vuol dire che si dispone o trasloca nelle sue mutanti parzialità determinate da un identità che non è più fissa, compatta, unitaria, stabile (come poteva essere vissuta e oggettivata nella piena modernità industrialista), bensì molteplice, scorrevole, fluida, spesso tessuta a patchwork, smossa dai confini incerti che caratterizzano l’appartenenza a un determinato genere, etnicità, strato sociale, generazione, spazialità, mobilità: e anche disciplina. Questi confini incerti caratterizzano l’esperienza metropolitana in between gli spazi che configurano le location. Tale concetto è utilizzato etnograficamente come caratterizzane fluidità interstiziali piuttosto che le stabilizzate identità fisse (e fissate) nei luoghi.

Una comunicazione visuale che non riproduce il dato ma innova i codici si dovrebbe posizionare sulle prospettive offerte dall’etnografia. Fare ricerca, quindi, sollecita un costante posizionamento e riposizionamento del soggetto, nelle sue fluttuanti identità che possono favorire un corpo (nel senso di bodyscape) percettivo che transita nelle diverse locations.

La costellazione etnografica si presenta nei movimenti dislocanti che (analizzati in dettaglio nel corso del seminario) attraversano, connettono, frammentano, assemblano i seguenti concetti­guida o indicatori etnografici: spaziali, comunicazionali, inter e intra-viduali:

-lametropoli comunicazionale, post-dualista (materlialimmateriale), come emerge oltre“luoghi” del moderno

-gli stili del consumo caratterizzanti il contesto post-industriale e comportamenti digitali

-le locations come spazi in between porosi/spugnosi, interzone ibride, e-space

-il bodyscape vissuto tra percezioni multi-sensoriali/pluri-logiche di un corpo pieno-di-menti (mindfull body)

-i sincretismi che liberano danze-dei-codici in un mix di polifonie transculturali

-gli attrattori semiotici addensati negli oggetti come un dress-code, che textualizzano una fisiognomica-del-design

-l’eroptica come farsi-occhio, desiderio riflessivo che si innesta nello sguardo, che osserva e si osserva

-un soggetto diasporico posizionato in quanto multi-viduo (eus, my-selves, ii) su routes e non tanto su roots

- c) metropolis comunicationalis

La metropoli comunicazionale, post-dualista come emerge oltre i “luoghi” del moderno - gli stili del consumo caratterizzanti da comportamenti digitali - le locations come spazi in between - il bodyscape vissuto come un corpo pieno-di-menti- i sincretismi che liberano polifonie transculturali

-gli attrattori semiotici incorporati negli oggetti come dress-code - l’eroptica come farsi-occhio riflessivo - un soggetto diasporico posizionato in quanto multi-viduo su routes e non su roots

Vi sono precedenti a questo mutamento epocale e alcune di queste tendenze sono state anticipate con visionaria lucidità da Musil in un suo romanzo che ha al centro la decomposizione della Vienna capitale universale; in questa citazione egli evoca una metropoli anni ’30 che sfida l’attuale anomica condizione: “Non diamo particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche” (Musil, 1996:6)

E’ il primo capitolo, il primo paragrafo, la prima pagina de L’uomo senza qualità di Robert Musil, per cui è chiaro che l’autore ha voluto assegnare a questo incipit un valore di fondazione, in quanto tale città-senza-nome (capitale dello stato di Cacania) è anche il contesto espressivo, politico e teorico dentro il quale si svolge la narrazione che anatomizza la crisi del ‘900. Parafrasando l’uomo, anche la metropoli è senza qualità. Infatti le cosiddette “qualità” appartengono a quelle persone dell’impero austro-ungarico che non si accorgono della decomposizione in corso d’opera di un sistema politico-culturale dentro il quale la sua capitale – Vienna - che non arriverà mai a festeggiare i 70 anni del suo imperatore. Assieme al genetliaco si avvicina la sconfitta dell’impero nella prima guerra mondiale.

Forse proprio per questo, come è ampiamente noto, si liberano tante forze creative dal proprio corpo-in-decomposizione. Musil è una di queste personalità straordinarie che riesce a dare il senso di una condizione metropolitana molto meglio delle contamporee celebri ricerche della Scuola di Chicago: irregolarità, intermittenze, collisioni, aritmie designano proprio la metropoli come enorme vescica ribollente fatto di recipenti materiati. Sao Paulo è stata ed è ancora così. La città polifonica ribolle. Ciò che si aggiunge coinvolge la tecno-comunicazione.

Per questo, quella “cosa” che continuiamo a chiamare metropoli sta assumento connotati sempre più sfuggenti e multipli che sfidano le classificazioni tradizionali: metropoli senza-nome o dai molti-nomi. In ogni caso la metropoli contemporanea – cui si può consegnare un vago aggettivo di “comunicazionale” – è il contesto fluido e innovativo che libera roots (radici) e mescola routes (itinerari, attraversamenti, incroci): ed è anche un laboratorio che sfida le tradizionali divisione delle discipline. Non si “sente” la metropoli se ci si rinchiude nello specifico architettonico, urbanistico, sociologico, antropologico, estetico e via di seguito: si sente se si intrecciano metodologie decentrate e dislocanti.

La trans-disciplinarietà non vuol dire mettere insieme più discipline, bensì consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartiene a nessuno. Questo nuovo oggetto è la metropoli comunicazionale. Meglio: la nuova metropoli è soggetto transdisciplinare che non appartiene a nessuno e che proprio per questo tutti dobbiamo attraversare e incrociare. Criss-crossing.

Questo transito è caratterizzato dalla tendenziale dissoluzione della produzione industriale, che costituiva il centro identitario, politico e mnestico della città (il suo “monumento” per eccellenza, con le sue classi precise, la dialettica sintetica, i dualismi centro-periferia, pubblico­privato, cultura d’élite-cultura di massa). Le innovazioni complesse e plurali che hanno favorito, accompagnato, anticipato tale dissoluzione sono il citato trittico: consumo-comunicazione-cultura.

Shopping center, malls, theme park, gentrification, musei, pubblicità, vetrinistica, mostre, sfilate, esposizioni, vacanze, convegni: tutto questo sta ridisegnando il vivere materiale-immateriale del nuovo sentire metropolitano. La competizione tra le metropoli avviene su questo piano, non più sulla quantità di merci che si posso produrre o stoccare, quanto sugli scenari tecno-comunicazionali e expo-culturali che ogni metropoli offre in panorami glocal.

La cultura e la tecno-comunicazione dei consumi subentrano alla tradizionale società dei consumi e la dissolve.

Le nuove tecnologie stanno avendo un ruolo decisivo su questo passaggio: le rappresentazioni architettoniche, urbanistiche o delle scienze sociali e comunicazionali incorporano e diffondono una molteplicità sensoriale di panorami.

E questo sta accadendo nei paesaggi fluidi della metropoli comunicazionale: gli edifici diventano spazi di performances senza-fine, da cui emerge - insieme alla comunicazione digitale - la multi-dimensione dell’avatar come bodyscape della nuova metropoli, che focalizza i mutamenti visuali e visionari dell’identità . Avatar significa - in un senso metaforico dalla filosofia hindu originaria come molteplice manifestazione del dio – l’esperienza di una soggettività multi-viduale e, allo stesso tempo, la auto-produzione di linguaggi multipli. Avatar è una sfida verso ogni discorso monologico e verso ogni identità fissa.

Nel bodyscape si intrecciano codici corporali e archiettonici, entrambi trasformati in paesaggio. È questo il paesaggio metrolitano per eccellenza. È qui che passa la metropoli comunicazionale. Lungo queti flussi panoramatici, si visionano anche i panorami etnici che rimesconalo e ridisegnano i frammenti dentro ogni incastro urbano; la metropolis comunicationalis somatizza divergenti flussi mediatici attraverso pubblicità, moda, video-music, stili di comportamento, codici corporali, gesti, gergo, seduzione, erotismi, feticismi. Questi flussi corporali-panoramatici sperimentano innesti pervasivi tra corpi-metropoli-media. E le location tengono conto di tutto questo fluttuare e attraversare come se fossero corpi inorganici che si strappano la “in” e diventano pienamente e post-dualisticamente organici.

In questa prospettiva, le semiotica si è svincolata progressivamente da ogni tentativo sistemico che negli anni passati ha visto nascere ordini interpretativi tutti naufragati nei flussi conflittuali, cangianti, sincretici. Proprio la nuova metropoli comunicazionale performa e mette in crisi ogni tentativo “ordinante” di composizione urbana. Una nuova semiotica irregolare e conflittuale scorre lungo gli anzidetti panorami e sfida ogni lettura sistemica, regolare, generalista.

Dress-code attesta il passaggio dai paradigmi idustrialisti (monologici) alla molteplicità post­paradigmatica (plurilogici) delle location sempre più affini a set mix-mediali, performing art, installazioni di strada. Dress-code alita dai luoghi tayloristi della produzione agli spazi del consumo Gruen). Sensoralia.

Nelle metropoli comunicazionali le avatectures sono locations materialimmateriali dense di corpi panoramatici, che nascono e muoiono e risorgono in uno scenario metropolitano in costante flusso, dove permane solo quello che svanisce nell’aria come flusso comunicazionale. In queste locations, il corpo diventa attore e scenario: il corpo assume precise pragmatiche comunicazionali per affinità, contrasto, tensione, mutamenti, frammentazione, assemblaggio. Tutto questo transita tra bodyscape e dress-code. Codice di ingresso e di acclaramento con cui il soggetto investe temporaneamente il corpo spaziato con attrattori mutanti. Gli attrattori sono semiotica che danza. Etnografia del design. Corpographia.

Bodyscape è cosmesi che si fa cosmo e location.

Capitolo 3: soundscape: soundesign

a) Design traslocante

Il design transloca come l’etnografia. Etnografia e design - nel loro spostarsi tra gli spazi - sono anche uno spostare lo spazio. Spostare lo spazio è dislocare la cultura del soggetto e innovare la comunicazione: configurare un design che trova in aree geo-culturali diverse l’attrazione verso geofilie ibride, frammentarie, simultanee. Questo contesto spugnoso interstiziale oscilla tra luoghi-spazi-zone, intreccia familiare e straniero, percepisce il visibile-invisibile, sincretizza l’oltre emergente.

Il traslocare non appare più segnato da ansie e angosce, bensì come un dislocamento dell’ordine domestico (addomesticato) degli oggetti e della percezione sensoriale che con questa stabilità oggettuale si era abituata a convivere. L’identità ben temperata ha accompagnato molte generazioni di individui: il transloco acquisisce nuove prospettive semiotiche, stili comportamentali, attrattori immaginativi.

Il traslocare, infatti, non coinvolge solo mobili e suppellettili: esso extravolge l’ordine percettivo delle cose e, in tal modo, favorisce una moltiplicazione della propria identità data. Nel trasloco si può affermare il desiderio di non ripetere - e di non sentirsi ripetuti da – l’ordine domestico, l’ordine addomesticato di mobili e pareti, oggettualità fisse e fissate. Mobili e pareti come “fissazioni” del proprio corpo-oggetto. Il trasloco può essere percepito oltre l’ordine domestico, la sua stantia normalità, la sua prevista solidità. Nel traslocare degli oggetti-corpo si prefigura un traslocare del corpo-soggetto e delle sue identità piene di menti.

Identità traslocanti per oggetti che non fissano più staticamente il suo inquilino servo-padrone. Muoversi attraverso flussi dissonanti e sincretici (location e bodyscape) produce un’etnografia del trasloco per assemblaggi di visori non-familiari, concetti non-addomesticati, movimenti pluri-identitari. Mix-cult.

Anziché anestetizzare il corpo nell’esperienza domestica del soggetto, tale hybrid-mix del design sollecita un uso moltiplicativo e non sottrattivo di un corpo esteso nelle sue protesi comunicazionali e oggettuali: ex-teso – teso al di fuori delle norme stabili. La somatizzazione semiotica emerge non più come patologia che deforma corpi e cose, ma come prassi corporea che moltiplica e mobilita corpi-oggetti incarnati in prassi spaziate.

- b) etnografia edesign.

Una relazione costitutiva tra design ed etnografia si (de)localizza nel lavoro come opus. La fine tendenziale dell’era industriale implica anche la fine di una concezione dell’oggetto diversa da quella tradizionale, in cui la prospettiva del design aveva fatto scuola; così come ha sospinto la ricerca etnografica classica a mutare “oggetto”, metodi, paradigmi. Se non è più quella tipologia del lavoro ad essere centrale: l’ipotesi presentata qui sollecita il design ad incrociarsi con l’etnografia in quanto per entrambi si tratta di reimpostare la ricerca sul campo. Non nella fissità dello studio e tantomeno nell’immobilità del soggetto, bensì nella scelta consapevole e desiderante di rimettere tutto in gioco e calarsi nelle zone del non-ancora-determinato, si consuma lo smarrimento dislocante e l’elaborazione discontinua.

Questo smarrimento in cerca di nuove elaborazioni produce legami affettivi tra etnografia e design: tra antropologia, architettura, comunicazione visuali . L’oggetto dell’etnografia (il nativo) diventa una piena soggettività altra che interpreta quanto è interpretato; l’oggetto del design fluisce e si fruisce in una relazionalità individualizzata polisensoriale esperita oltre il dualismo materiale­immateriale.

Così il lavoro dell’etnografo e il lavoro del designer si incrociano lungo possibili modulazioni narrative di cui – anziché focalizzare i rispettivi prodotti come testi – qui si accentra la riflessione proprio sulla parola più complessa e con il più alto tasso di mutazione immanente che è, appunto, il lavoro-opus. È sul processo e non sul risultato che si posiziona l’etnografia del design.

Ed è significativo che entrambe le prospettive sconfinano: il contesto metropolitano, in primis, emerge come fieldwork per trame su cui la partecipazione attenta e obbliqua di entrambe diventa costitutiva: l’area dello sprawl - così incrostata di segni e simboli, quanto smaterializzata da translucenze tecno-iconiche - produce spazi discontinui, irregolari, autopoietici, in continua metamorfosi parassitica. Spazi, zone, interstizi vanno vissuti dentro ogni coagulo caotico (nonorder) con una sensibilità verso quei dettagli minuziosi di grafismi urbani e di comunicazione visuale che si inscenano e si ibridizzano al suo interno.

L’area metropolitana è il contesto smosso su cui si dirige l’etnografia del design che seleziona la comunicazione come elemento caratterizzante i processi anche produttivi e del consumo che una volta si fissavano nel concetto (moderno) di società. Tutto questo si innesta sulle mutazioni profonde che hanno intaccato il concetto di lavoro così come si era costituito nella società industriale. Il transito da questa éra alla nuova metropoli comunicazionale, alla cultura digitale, ai corpi-identità mutanti impone soluzioni osservative, concettuali ed espressive radicalmente altre.

-c) soundscape e design. Esprimere un design diasporico significa avere una attitudine etnografica che si accende nel fare ricerca sull’altro, anche il più diverso dal proprio sé, non per imitarlo, assimilarlo o tanto meno assimilarsi, bensì per sviluppare nuove sensibilità performative nei diversi campi dei saperi espressivi. Anche e soprattutto in quello musicale. Posizionarsi nelle radicali insofferenze musicali è costitutivo per avvertire fasce creative tra design e etnografia, come è stato fatto in un recente seminario in Francia che ora svolgerò come espirazione per un sound-design.

Il design diasporico incontra una musica che evoca relazioni possibili tra etnicità, serialità, avanguardie, il cui ascolto è progettuale per nuove visioni nelle zone in between l’etnografia del design

Propongo un diverso uso etnografico del concetto di sound-design: esso configura geometrie visuali basate su diversi processi polifonici, poliritmici, iterativi, disordinanti. Le astratte composizioni soniche disegnano precisi itinerari mental-corporei che possono ricadere sul design come sulla scrittura oppure su altri generi compositivi. Un design diasporico incontra gli Aka, Giörgy Ligeti, Steve Reich. Purtroppo, per l’unico pregiudizio eurocentrico presente in questa straordinaria esperienza sonica, i musicisti Aka qui non hanno nome individuale: solo quello “etnico”. Essi sono noti anche come “pigmei”, altro termine denso di pregiudizi e abitano l’Africa centrale vicino al fiume Ubangi. Erano nomadi e, come molte culture di questo tipo, sono diventati sempre più sedentari. Ma la loro musica continua a sbalordire e a mescolare e a sperimentare nuovi polisounds.

Il cd edito da Pierre-Laurent Aimard – African Rhytms – è esemplare per una etnografia sonica applicata al sound-design. Giörgy Ligeti – musicista ungherese influenzato da Bela Bartók oltre che dalla scuola seriale di Darmstadt, scelto da Kubrick per la sua “Odissea” – racconta che, mentre stava nell’università di Stanford a Palo Alto come compositore residente, scoprì la musica di Steve Reich, in particolare quell’intreccio tra semplicità e complessità che rileverà successivamente nelle sue ricerche in Africa. E in effetti Reich da tempo ricercava la strumentazione non solo vocale del corpo umano per produrre variazioni seriali su moduli differenziati, giocati con diverse ritmiche ripetitive su graduali variazioni minime. Da queste premesse, Aimard inventa questo seminario, in cui le reciproche influenze tra poliritmie Aka, serialità Ligeti, minimalismi Reich si inscenano e incrociano in una straordinaria sperimentazione non solo musicale che esplora opus-sound-design potenziali infiniti. Questa è antropologia della musica, che innesta la c.d. musica etnica con quella jazz d’avanguardia e quella seriale di matrice “classica”. E in questo procedere le nozioni non solo musicali di etnicità, avanguardia, classica si svuotano dei loro significati fissi, stabiliti, disciplinati. E si entra nel design exteso.

Gli Aka, infatti, svolgono un tipo di musica fortemente ritualizzata all’interno della loro cultura, sedimentata in villaggi con una trentina di persone, senza autorità centrale, monogami e privi della parola che indichi “famiglia”. La musica permea ogni attività sia quotidiana che ritualmente data. Ogni voce solista ha una sua autonomia di scala, così come il battito delle mani (clap), i tamburi e altri strumenti. La musica connette in ogni performance i diversi mondi coesistenti, le fasi della caccia o della raccolta del miele, le presenze “ancestrali o di “spiriti” animali o della foresta. Questa musica è essenzialmente vocale e ha questa caratteristica: è basata su svolgimenti di polifonie ritmiche eseguite autonomamente da ciascun musicista, che – separato/unito con gli altri - segue le sue scansioni ritmiche scalari. Tali figure poliritmiche scompongono ogni sistema ordinato (lineare) di ascolto o di esecuzione, procedendo per contrappunti in reciproca ambigua tensione, per cui “ambivalence becomes a structural principle” (Arom-Schoman).

La differenziazione poliritmica afferma l’autonomia vocale individuale, ovvero un contrappunto per variazioni casuali e ambivalenti tra i vari contemporanei moduli. Le composizioni si basano su questi moduli (patterns) che variano in modo illimitato, da qui la dislocante densità di questi brani: “every piece is based on the uninterrupted repetition of period of unvarying lenght, appearing under the mantle of ever-new variations. Although their art is based on clear mathematical principle, Aka do not have an explicit theory” (Arom-Schoman). Il contrappunto vocale e strumentale favorisce un panorama sonico in cui ognuno esprime la propria individualità nelle variazioni possibili del set, emettendo una polifonia ambivalente, dissonante, complessa, pardossale.

La polifonia paradigmatica si costituisce nell’assoluta autonomia di ciascun sintagma vocale che trova congiunzioni assonanti/dissonanti determinate dalla casualità e dalla molteplicità di tutti gli altri strumenti e voci.

Ligeti così spiega la sua scoperta di tale paradosso: “the patterns performed by the individual musicians are quiete different from those which result from their combination”. E così l’ascolto inizia a percepire una forte tensione interna tra accelerazioni e rallentamenti, tra costanti e alcuni battiti (pulse) varianti: per cui l’assoluta simmetria dell’architettura formale si intreccia con una altrettanto fondamentale asimmetria interna alla divisione in moduli. “What we can wittness in this music is a wonderful combination of order and disorder” (Ligeti)

Le fughe soniche esplicitano grafismi asimmetrici, dissonanti e contrappuntistici. Opus.

Ora il design come opus dovrebbe apparire chiaro nei suoi molteplici significati e pratiche possibili: posizionarsi come soggetti al di là dello schieramento disciplinare; farsi attraversare dai fili itineranti del disorientamento; fare etnografia, cioè ricerca micrologica sul campo per decifrare i mutamenti disgiuntivi dopo l’era industriale; percepire l’irrompere di nuove culture, l’emergere della tecno-comunicazione digitale e del consumo performativo, il declino del sociale; produrre come activo il nesso fetish oggetto-soggetto basato sull’esperienza di un individuo molteplice (multividuo); immaginare un design sfacciato che somatizza la mimesi. E, infine, disporsi all’ascolto poliritmico e polifonico, contrappuntistico e seriale, alle ambivalenti combinazioni di ordine e disordine, in cui ogni ripetizione è nello stesso tempo un’innovazione. E tradurre l’ascolto in design che oltrepassa ordine e disordine, simmetria e asimmetria, spontaneità e regola.

Questo incrocio è esemplare per uscir fuori dall’esotismo presente anche in tanta della cosiddetta World Music. Le polifonie Aka – che grossolanamente definisco “etnica” – sono strappate al loro patrimonio localistico, da cui riparte la ricerca etnografica anziché concludersi come in passato. Esse si incrociano con le serialità elettroniche atonali e con le variazioni minimaliste jazz. Influenzano non solo le capacità compositive di Ligeti o Reich, quanto le visionarietà per imagos che si possono tradurre in segmenti grafici. Forse i grafismi sono legati più strettamente di quanto si possa immaginare alle dissonanze soniche. In un certo senso il design è sempre anche sound-design. O dovrebbe esserlo. Anzi: vorrebbe esserlo.

Nel lavoro come opus, l’etnografo designer si ascolta in quanto traslocante verso paesaggi sonici inauditi. È l’inaudito che sollecita - commuove – l’etno-designer a “sentire” qualcosa di ancora irrappresentato. Non tanto oggetto, forse non più merce immateriale e neanche res: una extrasistole pulsante dell’opus.

Bibliografia
Bhabha, H.K. 2001 I luoghi della cultura, Roma, Meltemi Betsky, A. - Adigard E. 2000 Architecture Must Burn, Ginko Press, San Francisco Canevacci, M. 2003 Culture eXtreme, Roma, Meltemi 2004 Sincretismi, Costa&Nolan, Milano (nuova ed.) Gilroy, P. 2003 The Black Atlantic, Roma, Meltemi Novack, M. www.I-skin.com Oosterhuis, K. 2003 Toward an e-motive architecture, Birkhauser, Basel


** Fonte: 1o Simpósio Sobre Comunicação Visual Urbana - LABIM

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